
Nell’ambito di una rinomata azienda di servizi sulla sicurezza nel mio territorio, le riunioni motivazionali erano un evento ricorrente e, per molti versi, centrale. Quando l’amministratore delegato mi invitò a partecipare alla mia prima riunione, lo considerai un onore. Colto da entusiasmo, gli proposi di collaborare alla preparazione dell’incontro. La sua risposta, però, mi lasciò perplesso: “Non serve preparare nulla. Seguo i miei sentimenti.”
Con un misto di curiosità e scetticismo, partecipai all’incontro. Sapevo bene, infatti, che la regola d’oro delle riunioni motivazionali è la preparazione meticolosa. Nonostante ciò, il nostro amministratore non si presentò del tutto impreparato: aveva predisposto una decina di slide per il suo numeroso pubblico.
La riunione iniziò alle 7:30 del mattino, prima dell’orario lavorativo ufficiale, per “non sottrarre tempo alle attività operative.” Una scelta discutibile, se l’obiettivo era davvero motivare i dipendenti.
La prima slide recitava il nome dell’azienda, seguito da un titolo altisonante: “Il futuro è nostro!” Era gennaio 2011, un periodo segnato da una crisi economica pesante. Nonostante ciò, il nostro amministratore, con l’entusiasmo di chi non si lascia scalfire, annunciò trionfante: “Abbiamo chiuso l’anno con un fatturato superiore al precedente! Quest’anno investirò per portare la società ancora più in alto. Sbarcheremo in Cina!”
L’annuncio era ambizioso, e mi aspettavo di vedere un business plan dettagliato che sostenesse il progetto. Invece, la slide successiva proclamava semplicemente: “I numeri ci danno ragione.” L’amministratore sottolineò che eravamo l’azienda leader nel territorio, ma ancora una volta mancavano dati concreti a sostegno di tale affermazione.
La narrazione proseguì con l’introduzione del suo “metodo infallibile,” un sistema che, a suo dire, avrebbe garantito il successo ovunque fosse stato applicato. Slide dopo slide, illustrò l’apertura di nuove filiali in Veneto e Piemonte, decantando i futuri traguardi senza mai entrare nei dettagli operativi.
Quella che doveva essere una riunione motivazionale si rivelò un monologo autocelebrativo. Non c’erano numeri, né strategie chiare; solo sogni vaghi e promesse astratte.
Alla fine, chiese: “Cosa ne pensate?”
La sala cadde in un silenzio imbarazzante. Per rompere il gelo, cominciò a interpellare i dipendenti per nome: “Pippo, tu cosa ne pensi?” Le risposte furono di circostanza: “Bello, interessante.” Solo uno ebbe il coraggio di chiedere: “Ma a noi cosa succederà? Dovremo trasferirci in Cina? A Torino? A Padova?”
L’amministratore rispose rassicurante: “No, voi resterete al vostro posto. Assumeremo personale locale.” E aggiunse: “Ho previsto anche un corso di inglese commerciale, perché presto riceveremo chiamate dall’estero. Dobbiamo essere pronti.”
L’idea del corso suscitò perplessità. La maggior parte dei dipendenti aveva solo un diploma tecnico, e molti non avevano basi solide di inglese. L’atmosfera si fece ancora più fredda.
Al termine della riunione, fui convocato nel suo ufficio. “Come è andata? Dimmi la verità,” mi chiese, raggiante per la sua performance.
“Vuole davvero sapere la mia opinione?” risposi. Alla sua conferma, chiesi di vedere il progetto per la Cina. Con un sorriso disarmante, mi spiegò che il piano era ancora in fase embrionale: aveva avuto un contatto con una persona a Milano che lo avrebbe aiutato a esplorare l’opportunità.
“Quindi non c’è un progetto concreto, né un’idea precisa dei costi,” osservai. Lui annuì, aggiungendo con leggerezza: “Chi non rischia, non rosica.”
Nel mese di luglio si organizzò anche una giornata speciale dedicata all’azienda presso l’abitazione dell’amministratore. Durante questo evento, si susseguirono grandi discorsi e furono presentati numerosi piani ambiziosi per il futuro. Tuttavia, tra i vari progetti illustrati, il progetto relativo alla Cina non era più presente.
La vicenda si concluse in maniera triste e sgradevole: durante il mese di settembre, l’azienda si trovò costretta a prendere la complessa decisione di licenziare una quota considerevole dei suoi dipendenti, riducendo la forza lavoro di oltre il cinquanta percento. Questa scelta fu dettata dalle difficoltà economiche e dalle pressioni finanziarie che l’azienda stava affrontando, lasciando un segno profondo su tutti i soggetti coinvolti.
Le persone si motivano con la verità, non con i proclami.
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