
Avevo appena firmato un contratto di coaching con un’azienda della mia regione, una società di servizi dal fatturato molto interessante. L’entusiasmo per questa nuova opportunità era palpabile, ma non immaginavo che mi sarei trovato di fronte a un caso così emblematico di gestione discutibile.
Già dopo la prima settimana, incuriosito dal funzionamento interno, chiesi all’amministratore – che deteneva il 51% della società – quale fosse il suo metodo per la selezione del personale. Con un’aria sicura, rispose: “Li assumo in base ai bisogni interni. Non c’è una selezione vera e propria. Mi guardo intorno, chiedo a qualche amico o parente e li assumo.”
Incredulo, proseguii: “Ma almeno richiede un curriculum? Valuta competenze specifiche? Come fa a sapere se una persona è in grado di assolvere i propri compiti?”
Lui, quasi divertito, rispose: “Ho persino assunto qualcuno solo perché me lo ha chiesto un cliente. Sono bravo a gestire e motivare le persone, non mi servono competenze: imparano tutto sul campo.”
“Incredibile,” pensai. Forse avevo finalmente trovato un metodo rivoluzionario per la motivazione del personale. Decisi di approfondire. La seconda settimana iniziai i colloqui individuali con i dipendenti per capire meglio questa dinamica motivazionale. Ma già dopo i primi due colloqui il quadro era chiaro: non esisteva alcuna motivazione. Le regole erano rigide e burocratiche: entrata alle 8:00, pausa alle 10:00 (con la speranza che durasse almeno mezz’ora), fine mattinata alle 12:00, ripresa alle 13:00, altra pausa alle 16:00, e termine della giornata alle 17:00.
“Ma durante la giornata cosa fate?” chiesi a un dipendente. La risposta fu spiazzante: “Seguiamo il sistema.”
“Il sistema?” domandai. “Che cos’è?”
“Un gestionale che ci dice esattamente cosa fare.”
Decisi di approfondire con l’amministratore. Mi spiegò che il gestionale era stato progettato per categorizzare le aziende clienti e fornire soluzioni standardizzate. “Tutti i nostri servizi sono preimpostati,” disse. “Cambiamo solo il nome del cliente nei documenti.”
“E i dipendenti?” chiesi. “Non serve che abbiano competenze specifiche?”
“Esatto. Per questo non mi servono persone qualificate. Il sistema fa tutto. E poi, per le quattro aziende più importanti, c’è Pipino: è l’unico che conosce davvero la materia.”
Mi girava la testa. Non riuscivo a credere che un’azienda potesse funzionare così. Alla fine gli dissi: “Questo approccio non potrà durare a lungo. Prima o poi la concorrenza scoprirà le vostre falle.”
Man mano che i giorni trascorrevano, mi resi conto che l’amministratore aveva una chiara tendenza a evitare l’assunzione di personale qualificato. La sua paura di perdere il controllo era evidente. Quando gli fu chiesto il motivo per cui possedeva il 51% delle quote societarie, rispose con fermezza, senza alcuna esitazione: “Devo essere io a comandare. I miei soci non capiscono niente.”
Dopo un mese, mi era ormai chiaro che l’azienda si reggeva su un equilibrio precario. I reclami dei clienti erano numerosi, e ogni problema veniva risolto personalmente dall’amministratore o da Pipino. Entrambi lavoravano dalle 7:00 alle 19:30, richiamando costantemente i dipendenti: “Non capite nulla! Seguite le procedure e non farete confusione.” (Le parole originali erano molto meno gentili.)
Quell’esperienza mi impartì una lezione essenziale e indimenticabile: scegliere di circondarsi di personale incompetente non assicura affatto il controllo della situazione, ma conduce inevitabilmente al disordine. Un vero leader non ha paura di confrontarsi con individui più preparati e competenti, anzi, li cerca attivamente per crescere e migliorare sia personalmente che professionalmente. Se ci si lascia dominare dalla paura di perdere il controllo, si rischia di ridursi a essere solo “il capo”: un titolo privo di sostanza, senza la vera essenza della leadership autentica.
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